sabato 13 gennaio 2024

Mu il nulla indicibile

Mu, il nulla indicibile

di Cristiano Martorella

16 maggio 2002. Fra i concetti filosofici esposti dal buddhismo zen, riveste una particolare importanza la singolare concezione del nulla (mu). Molti studiosi hanno evidenziato la profonda differenza fra la concezione orientale del nulla e la definizione occidentale assunta nel mondo moderno. In generale si intende il nulla come mancanza, assenza, o negazione. Queste definizioni non corrispondono al nulla del buddhismo zen. Hisamatsu Shin'ichi ha dedicato un testo, intitolato La pienezza del nulla, all'analisi delle differenze fra la concezione del nulla propria dello zen e le altre. Hisamatsu distingue alcune interpretazioni del nulla che non corrispondono affatto al nulla dello zen.

1) Nulla come negazione della presenza.
2) Nulla come negazione del giudizio.
3) Nulla come idea.
4) Nulla come prodotto dell'immaginazione.
5) Nulla come assenza di coscienza.

Il nulla come negazione della presenza nega l'esistenza di un ente in un luogo o in assoluto. Questa interpretazione del nulla, molto diffusa, si poggia sulla concezione dell'essere come presenza. Ma alcuni filosofi (fra cui Martin Heidegger) hanno contestato questa concezione ritenendola equivoca e limitativa.In Essere e tempo, Martin Heidegger rintraccia nella filosofia di Cartesio la concezione dell'essere come res extensa semplicemente presente. Come suo contrario viene così definito il nulla, ossia la negazione della presenza. Tuttavia questa definizione risulta insufficiente e fallace. L'essere non può venir inteso soltanto tramite una sua determinazione: la presenza. Così il nulla non può intendersi come l'assenza di una presenza. Si tratta della consueta modalità del pensiero occidentale caratterizzata dal dualismo e dal ragionamento tramite negazioni. Si definisce qualcosa come opposizione e negazione.Il buddhismo ricorre invece a una grande libertà di associazione poiché ritiene l'essere come una natura immanente. Il pensiero quotidiano, al contrario, rischia di limitare la comprensione del mondo escludendo le infinite possibilità dell'esistenza.Il nulla come giudizio è semplicemente la negazione di un predicato. Ad esempio, "il serpente non è un mammifero". Si tratta però di un formalismo. Ciò che viene negato è l'asserzione intorno a qualcosa. Infine conosciamo pochissimo sulla vera natura delle cose.Il nulla come idea è un'altra astrazione. Quando diciamo che "il nulla non è l'essere" abbiamo soltanto stabilito un'opposizione.Ci accorgiamo così di conoscere ben poco su concetti che usiamo abitualmente come il nulla e l'essere. Il buddhismo zen riconosce questa nostra ignoranza e l'attribuisce al nostro modo consueto di ragionare. Perciò ritiene essenziale abbandonare gli schemi concettuali prestabiliti. Per far ciò preferisce l'applicazione di metodi pratici come la meditazione, ma non esclude la speculazione utilizzando i paradossi logici (koan) che distruggono ogni rappresentazione intellettuale.Hisamatsu fa notare come il nulla orientale non corrisponda alla concezione moderna dell'Occidente perché non suppone l'opposizione fra nulla ed essere. Egli ricorda in proposito lo Hyakuron di Daiba:

"Tutto, essere e non-essere, è nulla. Perciò ogni dottrina buddhista insegna che nella nostra vera essenza tutto, essere e non-essere, è nulla."

Hisamatsu introduce un altro argomento che ci permette di capire meglio questo punto. Il nulla dello zen non va interpretato come un'entità metafisica oppure ontologica. Perciò si esclude che esso sia l'esistenza o la mancanza di esistenza. L'autentico nulla dello zen è tutto perché è un principio psicologico che permea l'io. Ogni nostra sensazione e conoscenza si trova nell'io che è assoluta illusione, ovvero nulla. In questo senso tutto, davvero tutto, è nulla. Se pensiamo per un attimo di annullare l'io della nostra persona ci accorgiamo che spariscono anche le sensazioni e con loro l'intero mondo. La scoperta del buddhismo è talmente dirompente da costituire una novità anche per gli orientali. Lo zen, per molti versi, si oppone e costituisce una critica nei confronti del taoismo e del confucianesimo. Takuan Soho (1573-1645) scrisse nel Tokaiyawa parole molto dure in proposito:

"Il confuciano fraintende il vero nulla, lo rifiuta. Infatti lo considera unicamente un non-qualcosa e non capisce. Io chiamo vero nulla il fatto che non si serbi nulla nel proprio cuore. Ma il cuore è un attore che rappresenta ogni ruolo. Io chiamo vero nulla il fatto che il cuore non possa esaurire sé in nessun ruolo. Il vero nulla di cui parlo è ciò che è libero da ogni ruolo e da ogni compito."

Takuan ripresenta la concezione dello zen che interpreta il nulla come una condizione psicologica capace di operare positivamente. Ed è infatti questo nulla che libera l'uomo da ogni preconcetto e atteggiamento. Secondo Suzuki Daisetsu, il nulla giunge continuamente a portata della nostra mano, è sempre con noi e in noi, condiziona la conoscenza, i nostri atti, la stessa vita. Ma quando tentiamo di coglierlo e presentarlo come una cosa, esso ci elude e svanisce.Si capisce che il nulla dello zen non può essere né metafisico, né ontologico, ma nemmeno psicologico. Esso è tutte queste cose insieme e nessuna di esse presa singolarmente. Secondo Hisamatsu, questo nulla è onnipresente e si estende sulla totalità dei fenomeni fisici e psichici, eppure non ha manifestazione conoscibile dai sensi. Il nulla dello zen esclude ogni possibilità di essere determinato, ed è perciò veramente puro e intatto poiché assolutamente intangibile. Cos'è dunque questo nulla? Come si può descriverlo se è indicibile? Il buddhismo ricorre alla metafora dell'onda. Un'onda non cade dall'acqua dall'esterno, ma proviene dall'acqua senza separarsene. Scompare e torna all'acqua da cui ha tratto origine e non lascia nell'acqua la minima traccia di sé. Come onda si solleva dall'acqua e torna all'acqua. Come acqua esso è il movimento dell'acqua. Come onda l'acqua sorge e tramonta, e come acqua non sorge e non tramonta. Così l'acqua forma mille e diecimila onde e tuttavia resta in sé costante e immutata. Questa è l'essenza del nulla zen. 


Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del Buddhismo Ch'an, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L'incontro con la cultura cinese, Graphos, Genova, 1992.
Heidegger, Martin, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976.
Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il melangolo, Genova, 1993.
Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996.
Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 1992.
Sekida, Katsuki, Zen Training. Methods and Philosophy, Weatherhill, New York, 1975.
Suzuki, Daisetsu, The Zen Doctrine of No-Mind, Rider & Co., London, 1958.
Suzuki, Daisetsu, An Introduction to Zen Buddhism, Rider & Co., London, 1969.
Takuan, Soho, Lo zen e l'arte della spada, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001. 

sabato 6 gennaio 2024

La conoscenza e l'ignoranza

Chishiki

La conoscenza attraverso la consapevolezza dell’ignoranza
di Cristiano Martorella

18 settembre 2002. Chishiki to mushin, ovvero conoscenza e vuoto mentale. Due realtà apparentemente opposte. Però la filosofia giapponese fornisce alcuni concetti alternativi al pensiero occidentale che costituiscono un fondamentale arricchimento del sapere umano. Questa semplice osservazione si rivela ancor più vera dinanzi ai concetti di conoscenza (chishiki) e ignoranza.
Negli ultimi anni si è consolidata in Occidente una concezione della conoscenza esposta dall’epistemologia americana. In particolare il funzionalismo computazionale ha propagandato una visione del pensiero riconducibile alla macchina a stati finiti ideata da Alan Turing. L’idea di una macchina pensante fu sostenuta da Turing in un celebre articolo apparso nella rivista "Mind" nel 1950 (1).
Piuttosto che affrontare complesse indagini sulla natura del pensiero, Alan Turing si limitò a proporre la possibilità che una macchina potesse imitare le risposte di un uomo rendendosi indistinguibile. Il "test di Turing" prevedeva che l’intelligenza artificiale non sarebbe stata distinguibile dall’intelligenza umana.

"Un computer è paragonabile a un essere umano, quanto a intelligenza, se gli esseri umani non possono distinguere le prestazioni del computer da quelle dell’essere umano." (2)

Il successo del funzionalismo computazionale fu favorito dal rapido sviluppo dei calcolatori e dell’informatica che sembrava convalidare le tesi e l’ottimismo di Alan Turing (3). Ma la tesi secondo cui la mente funziona come un computer digitale non si basa su risultati concreti, piuttosto è la considerazione dell’idea dell’intelligenza come calcolo e manipolazione formale di simboli (una tradizione consolidata nella scienza occidentale e anticipata da Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz). Si tratta dunque di una teoria interna alla filosofia occidentale, e non è affatto un problema di ingegneria elettronica come appare.
Tuttavia l’intelligenza artificiale aveva assunto un ruolo talmente propositivo da diventare un argomento filosofico autonomo, specialmente in quella disciplina definita filosofia della mente (ma anche nella filosofia del linguaggio e della scienza, nella psicologia cognitiva, senza dimenticare il ruolo dominante nelle neuroscienze). L’epistemologia americana diede immensa considerazione alle teorie e ricerche di questi studiosi. Allen Newell ed Herbert Simon sembrarono rappresentare i capostipiti di una nuova concezione della mente, del pensiero e della filosofia. Qualcosa che sembrava fornire risultati più concreti delle precedenti tradizioni filosofiche. Jerry Fodor ed Hilary Putnam contribuirono ad elaborare un insieme di tematiche che diedero spessore e dignità all’intelligenza artificiale come disciplina filosofica. Ciò ebbe una ricaduta notevole sulle consuete concezioni di conoscenza e pensiero. Fodor fornì anche un tentativo di spiegazione del funzionamento della mente umana e del linguaggio (4).
Nonostante l’approccio orientato alla tecnologia, l’epistemologia americana si rivelava più conservatrice di quanto invece apparisse. Il modello dell’uomo come macchina era un’elaborazione cartesiana (5). Risulta interessante constatare come il dualismo cartesiano mente/corpo corrisponda al dualismo informatico software/hardware, rivelando l’antichità di questa concezione. E la formalizzazione del linguaggio era un progetto leibniziano (6).
L’epistemologia americana non ha fatto altro che radicalizzare una tendenza della filosofia occidentale giustificandola con i successi della tecnologia informatica. Purtroppo queste discipline sono accostate in modo arbitrario. L’ingegneria elettronica non necessita di alcuna giustificazione filosofica, mentre l’epistemologia sembra approfittare dei vantaggi dell’elettronica per avallare le sue tesi.
Il risultato più evidente e scandaloso è nella concezione della conoscenza come dato cumulativo. Il sapere è ridotto a una serie di informazioni, come in un database, conservate e organizzate. La filosofia orientale sembra non condividere questa visione della conoscenza. Addirittura lo zen suggerisce che la vera conoscenza sia soltanto quella ottenuta tramite il vuoto mentale (mushin). Comunque, il buddhismo sposta drasticamente l’attenzione dalla conoscenza alla consapevolezza dell’ignoranza. Credere di conoscere sembra la maniera più ovvia per evitare di conoscere. Perciò il buddhismo pone la "consapevolezza dell’ignoranza" come uno dei sei pilastri della saggezza.
La consapevolezza dell’ignoranza non è una dottrina esclusivamente orientale, ma apparteneva anche alla tradizione degli antichi greci. Il saggio Socrate, nominato dall’oracolo di Delfi come il più sapiente fra i greci, affermò di non sapere così da conoscere qualcosa in più rispetto a chi credeva di sapere senza sapere. A parte il contenuto sofistico della frase socratica, il filosofo ateniese era veramente coerente con quanto affermava. Lo zen rifiuta la dottrina scritta insistendo invece su metodi che risveglino la consapevolezza dell’allievo. Socrate applicava un metodo detto maieutica che rifiutava la scrittura preferendo ad essa il dialogo (dialéghesthai). L’Occidente vide nelle stranezze di Socrate un atteggiamento eversivo e politicamente pericoloso, e lo si condannò quindi a morte nel 399 a.C. Questo fu il caso più eclatante (ma non l’unico, si pensi anche a Giordano Bruno nel 1600) dell’intolleranza delle società occidentali nei confronti di chi metteva in dubbio la conoscenza ufficiale. Ciò rivelava anche quanto la conoscenza fosse identificata con il potere. Atteggiamento non dissimile da quello attuale nei confronti dell’informazione e dei mass-media.
Rompere i ceppi che imprigionano la mente umana è il compito che si è assegnato il buddhismo zen. A questo punto la conoscenza si rivela un fardello opprimente che ci impedisce di muoverci. D’altronde Buddha aveva insegnato che è l’attaccamento a generare la sofferenza. Ecco come Deshimaru riassume questi princìpi.

"Spezzare i legami, le abitudini, amare senza desiderio di possesso, agire senza finalità personali, tenere le mani aperte, donare, abbandonare ogni cosa senza paura di perdere: ecco la disciplina dell’adepto zen ! La verità risiede nella semplicità. […] Il maestro Dogen ha detto: Tenete le mani aperte, e tutta la sabbia del deserto passerà tra le vostra dita. Chiudete le mani, stringerete soltanto qualche granello di sabbia." (7)

Come si può pensare di conoscere se ci si attacca a quattro stracci di idee come a un feticcio? Il buddhismo zen vanifica l’edificio occidentale della sapienza come accumulazione di dati e ci apre una prospettiva molto più ricca. In concordanza con le posizioni più avanzate della filosofia occidentale (in particolare Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger) si mette in dubbio la concezione cumulativa della conoscenza.
Per il filosofo Nishida Kitaro la conoscenza è un’azione piuttosto che il possesso di dati.

"Secondo l’epistemologia tradizionale, la conoscenza viene costruita secondo il soggetto cognitivo, e all’opposto il dato è pensato come meramente materiale o latente. […] Tuttavia, conoscere è agire e per agire si deve dare un fondamento. Di che cosa si tratta? Deve essere sempre il mondo della realtà che viene colto nell’intuizione attiva." (8)

Insomma, la prospettiva del funzionalismo computazionale è viziata alla base dalla mancanza di un rapporto con la realtà (9). Non è sufficiente riprodurre il mondo nel computer per fingere di conoscerlo. E altrettanto vale per la mente umana che crede di conoscere tramite le rappresentazioni. La difficoltà non è quindi attribuibile alla tecnologia ancora una volta imputata ingiustamente di meriti o colpe che non la riguardano. Piuttosto questa conoscenza non è verace a causa di un errore filosofico, quindi umano. Ma questa consapevolezza può renderci ancora più disponibili e aperti verso il mondo, perché sapere di non sapere è il primo passo per il risveglio dell’intelletto.

Note

1. Turing, Alan, Computing Machinery and Intelligence, in "Mind", vol.59, 1950, pp.433-460.
2. Bechtel, William, Filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1992, p.194.
3. L’articolo di Turing era ben articolato e sviluppato, prendendo in considerazione anche le possibili obiezioni. Anche il filosofo Ludwig Wittgenstein prese in seria considerazione il quesito di Turing: "Potrebbe pensare una macchina?" Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, p. 150.
4. Fodor, Jerry, La mente modulare, Il Mulino, Bologna, 1988; Fodor, Jerry, Il problema del significato nella filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1990.
5. Descartes, René, Opere filosofiche, Laterza, Bari, 1986.
6. Russell, Bertrand, La filosofia di Leibniz, Newton Compton, Roma, 1972.
7. Deshimaru, Taisen, Il vero zen. SE, Milano, 1993, pp.24-25.
8. Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001, p.49.
9. Circa la posizione dell’epistemologia americana si legga anche l’opera di Hilary Putnam, importante esponente di questa corrente filosofica. Cfr. Putnam, Hilary, Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano, 1987.