giovedì 27 maggio 2010

Tetsugaku

Tetsugaku, la filosofia giapponese
di Cristiano Martorella

11 febbraio 2002. Quando gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. I sapienti dell’arcipelago nipponico avevano curato la loro formazione intellettuale con lo studio del sanscrito e del cinese, e l’approfondimento dei classici confuciani e buddhisti. E i risultati non erano mancati. Il monaco buddhista Kukai (774-835), conosciuto con il titolo di Kobo Daishi, inventò i kana tuttora utilizzati nel giapponese moderno. Egli li ottenne attraverso lo studio della scrittura sanscrita (devanagari) e una semplificazione dei kanji di origine cinese. Il sistema sillabico dei caratteri (kana) fu una conquista intellettuale notevole e permise uno sviluppo della scrittura. I kana, a differenza dei kanji, avevano un valore esclusivamente fonetico e permettevano anche la trascrizione di suoni (giseigo) e parole straniere (gairaigo), svolgendo tante funzioni linguistiche altrimenti impossibili.
Dunque l’arrivo della filosofia e scienza europea alla metà del XVI secolo trovò un ambiente intellettualmente florido. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale.
I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone (1). A differenza di altre nazioni europee (si pensi alla Spagna), l’Olanda non aveva mire espansionistiche feroci, ma applicava una politica che favoriva gli scambi commerciali e culturali. L’Olanda era anche divenuta il rifugio degli intellettuali nel XVII secolo grazie alle garanzie civili, alla tolleranza religiosa e alla libertà di pensiero consentita. Ciò spiega i rapporti privilegiati fra Olanda e Giappone, altrimenti impossibili (2).
Intanto si compilavano numerosi testi sulla sapienza dell’Occidente. Arai Hakuseki (1657-1725), per ordine dello shogun Ietsugu, interrogò il missionario italiano Giovanni Battista Sidotti e ne ricavò un libro intitolato Seiyo kibun (Rapporto sull’Occidente). Il testo raccoglie e tratta la storia europea, la geografia, la filosofia e religione. Arai Hakuseki riconosce la superiorità della scienza occidentale nei settori pratici (geografia, astronomia, chimica, etc.), ma rimane scettico ed esprime disprezzo nei confronti del cristianesimo ritenuto contraddittorio e superficiale.
Yamagata Banto (1748-1821) scrisse Yume no shiro (Al posto dei sogni) in cui affermava la sua concezione materialista del mondo a favore della scienza e contro le superstizioni.

"Gli occidentali osservano e fanno rilevamenti durante i loro viaggi tra un paese e l’altro. […] Non esistono teorie fallaci come quelle indiane, cinesi e del nostro paese. Bisogna credere alle loro teorie. […] I cinesi con disattenzione fanno affermazioni piene di errori, senza prima controllarle. E indiani e giapponesi le acquisiscono così come sono." (Yamagata Banto, Yume no shiro 1,25 e 12, 23)

Yamagata Banto espone anche importanti acquisizioni scientifiche dell’epoca: la teoria eliocentrica, la forma sferica e la rotazione della Terra, il movimento di marea, la teoria gravitazionale di Newton, la dinamica e l’elettrologia.
Nel 1774 Motoki Yoshinaga (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Shizuki Tadao (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese.
Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Fra gli studiosi di rangaku spiccarono Aoki Kon’yo, Arai Hakuseki, Asada Goryu, Hiraga Gennai, Maeno Ryotaku, Shiba Kokan, Shizuka Tadao, Sugita Genpaku, Takano Choei, Watanabe Kazan e Yamawaki Toyo.
Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale.
L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Takano Choei (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano Choei a suggerire la prima traduzione della parola occidentale "filosofia" (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un "sapere generale e fondamentale". Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Nishi Amane (1829-1897) (3).
Il nuovo termine era composto da due kanji: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). Al contrario di quanto affermato dagli studiosi italiani come Grazia Marchianò, Gino Piovesana e Carlo Saviani, il termine tetsugaku non è affatto la traduzione letterale di "amore del sapere"(4). Non vi è infatti presenza della parola amore nei kanji di tetsugaku. I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase "dori ni akaruku" (diventare chiaro tramite la ragione). A differenza degli insegnamenti confuciani (basati sul rispetto delle regole tramandate dagli avi) e della dottrina buddhista (antiteoretica e contemplativa), la filosofia nippo-europea (tetsugaku) utilizzava un metodo speculativo. L’applicazione del metodo speculativo (o dialettico) inventato dai greci verso il V secolo a.C., nell’ambito delle conoscenze già acquisite dalla filosofia orientale, diede vita a sistemi filosofici originalissimi compatibili con la scienza occidentale (5).
La filosofia nippo-europea tuttavia è ampiamente ignorata ancora oggi. Anche perché si rivela concorrenziale e alternativa alle dottrine epistemologiche d’origine americana attualmente dominanti. Ciò significa un ritardo storico nei confronti di un pensiero transnazionale che dovrebbe evitare le contrapposizioni fra "orientale" e "occidentale". Una perdita intellettuale che è anche una delle cause del clash of civilizations (scontro di civiltà) della nostra epoca.

Note

1. Per la rangaku e l’incontro del Giappone con la scienza occidentale si consulti il completo ed equilibrato testo di Andrea Tenneriello. Cfr. Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Edizioni Unicopli, Milano, 2001.
2. Cfr. Keene, Donald, The Japanese Discovery of Europe 1720-1830. Stanford University Press, Stanford, 1969.
3. Cfr. Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.
4. Cfr. Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il melangolo, Genova, 1998, p.23.
5. Si consideri, ad esempio, il successo della fenomenologia husserliana in Giappone. Cfr. Ogawa, Tadashi, The Kyoto School of Philosophy and Phenomenology, in Analecta Husserliana, vol.8, 1979, pp.207-221.

Bibliografia

Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. I miti dell’antichità, Graphos, Genova, 1991.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L’incontro con la cultura cinese, Graphos, Genova, 1992.
Marchianò, Grazia (a cura di), La scuola di Kyoto. Kyoto-ha, Rubbettino, Soveria Mannelli,1996.
Miki, Kiyoshi, Tetsugaku nyumon, Iwanami, Tokyo,1940.
Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.
Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1966.
Piovesana, Gino, Filosofia giapponese contemporanea, Pàtron, Bologna, 1968.
Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma, Tokyo, 1976.
Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1963.

martedì 25 maggio 2010

Da cuore a cuore

Articolo pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, Filosofare da cuore a cuore, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.12-13.

Filosofare da cuore a cuore
di Cristiano Martorella

La parola zen deriva dal cinese chan, a sua volta adattamento dal sanscrito dhyana e del pali jhana. Con questo termine si indica semplicemente la meditazione, ma ha assunto anche il significato di un tipo di buddhismo giapponese dal nome della setta omonima. La leggenda narra che il primo patriarca dello zen fu Kashyapa. Durante un’assemblea Buddha rimase misteriosamente silenzioso guardando semplicemente un fiore che teneva in mano. Poi rivolse lo sguardo ai discepoli. Nessuno lo comprese tranne Kashyapa che gli sorrise. Buddha ricambiò il sorriso e questa fu l’illuminazione del suo allievo. La leggenda indica chiaramente le caratteristiche del buddhismo zen che si concentra sul fenomeno dell’esperienza dell’illuminazione. Lo strumento per raggiungere l’illuminazione è la meditazione. La meditazione è, secondo Taisen Deshimaru, la condizione originale del corpo e della mente liberati dai condizionamenti. Quanto ciò sia facile da dire e difficile da applicare è ben noto a chi pratica lo zen che è sicuramente una scuola buddhista dalla disciplina severa e austera, e tuttavia affascinante per gli occidentali. Motivo di tanto interesse è dovuto anche all’influenza che lo zen ha avuto sulle arti giapponesi. Dal teatro (no) alla calligrafia (shodo), dall’arte della disposizione dei fiori (ikebana) alla cerimonia del tè (chanoyu), dal tiro con l’arco (kyudo) alla scherma (kendo), ogni arte giapponese sembra permeata dai princìpi dello zen. La ragione è da ritrovare nella flessibilità amorfa della pratica zen. In effetti non è zen ciò che si fa, ma come si fa. A questo punto è necessario un passo indietro per approfondire alcuni aspetti del buddhismo e comprendere cosa si intenda per pratica zen.
Il dilemma della condizione umana è nell’essere afflitti da tormenti e tribolazioni generati da una mente incapace di restare tranquilla. La soluzione non è nell’attitudine del pensiero, nelle idee, che più spesso sono la causa del dilemma, e nemmeno in una condizione fisica che ignora il malessere mentale. C’è bisogno di una pratica che sappia risolvere il conflitto fra la mente e la realtà, il pensiero e il corpo, l’individuo e l’ambiente, la vita e la morte, insomma la soluzione di ogni dualismo. Infine ecco l’illuminazione immediata secondo l’insegnamento dello zen. L’illuminazione è l’esperienza della percezione dell’identità delle contraddizioni. Il dualismo è soltanto un’idea della mente, la realtà è l’unità dei fenomeni dell’universo. Chi riconosce il carattere illusorio del conflitto si emancipa dai ceppi che impediscono alla mente di vedere il carattere autentico del quotidiano. La mente dell’illuminazione (bodaishin) è la mente che vive in accordo con la realtà del sé e delle cose, libera da attaccamenti e condizionamenti. Il metodo per sviluppare la mente dell’illuminazione è la via di Buddha (butsudo) senza spirito di profitto (mushotoku). Concretamente ciò si può realizzare in diversi modi, e infatti sono diverse le tecniche usate dalle scuole zen. La setta Rinzai adotta lo zen della meditazione sulle parole (kanna zen) attraverso i koan, paradossi logici, mentre la setta Soto applica lo zen dell’illuminazione silenziosa (mokusho zen) tramite lo zazen, il restare seduti. Lo zazen è una pratica enigmatica nella sua semplicità e banalità, la quale consiste nello stare seduti in quiete senza tensione e senza torpore. Questa semplice condizione, se guidata dalla consapevolezza del corretto insegnamento buddhista, porta all’unità inscindibile di corpo e mente (shinjin ichinyo) e alla liberazione della mente che non si attacca e fissa ai pensieri, ma accetta il cambiamento del reale. Lo zen è dunque la realizzazione della mente originale, mentre il resto è vaneggiamento mondano e illusorio.
Caratteristica dello zen è l’importanza attribuita al metodo dell’insegnamento detto "da cuore a cuore" (ishindenshin) che è simboleggiato dall’illuminazione di Kashyapa. Il vero insegnamento di Buddha non è una conoscenza concettuale trasmissibile tramite le parole, piuttosto è l’intuizione del reale aspetto di tutti i fenomeni e la visione (kensho) dell’autentico sé. Questa intuizione non può avvenire e nemmeno essere trasmessa attraverso i pensieri, bensì può essere indotta soltanto con l’apertura della mente alla ricezione e al raggiungimento dell’illuminazione immediata. D’altronde la stessa definizione di illuminazione immediata rimanda etimologicamente a qualcosa che non è mediato. Da un punto di vista filosofico occidentale ciò rappresenterebbe un ostacolo rilevante. Trasmettere un insegnamento senza l’ausilio del pensiero è inconcepibile. Tuttavia per il buddhismo zen ogni pensiero è illusorio perché è di parte, relativo, particolare, finito, insomma non conosce l’assoluto. Meglio allora liberarsi di questo pensiero restando seduti in silenzio. Drastico ed efficace. Così è lo zen, austero e severo, irremovibile dalla necessità di estirpare l’errore dalla mente umana. Così come Bodhidharma che rimase seduto in meditazione per nove anni rivolto al muro.
Il carattere non speculativo dello zen spiega la sua penetrazione nelle arti giapponesi. Lo zen è pratica continua e applicazione costante in ogni aspetto della vita. L’arte ha inteso sommamente questo interesse per la vita svincolata da condizionamenti e costrizioni, e perciò l’ha esaltato in massimo grado. Non è nemmeno trascurabile il fatto storico ossia che i maestri dello zen più importanti siano stati giapponesi come Dogen, Keizan, Ikkyu, Hakuin, Bankei e Deshimaru. Per questi motivi si può affermare che il tratto caratteristico della cultura giapponese è tipicamente buddhista e zen, a differenza della Cina profondamente e orgogliosamente confuciana. Il Giappone è perciò il paese attualmente più vicino all’insegnamento dello zen.
In conclusione, a che serve allora lo zen? A niente. Lo scopo dello zen è liberare la vita da scopi artificiosi e innaturali rivelandone il suo autentico potenziale. Lo zen si presenta sempre come contraddittorio e inafferrabile perché non accetta appunto qualsiasi genere di manipolazione e strumentalizzazione. Ogni volta che si tenta di fissare la mente a qualcosa, immediatamente lo zen lo nega. Se ci si rivolge alla negazione, nega anche quest’ultima. La verità non è in qualcosa, la verità è in tutto. La mente offuscata è capace soltanto di discriminare e distinguere, viceversa la mente illuminata è capace di comprendere e compenetrare. Per questo motivo la mente dello zen è più vicina alla mente di un bambino che gioca, ed è lontanissima dalla mente di chi è convinto delle opinioni e tronfio delle certezze. Dogen affermava che tenendo la mano aperta in un deserto passerà tutta la sabbia trasportata dal vento, mentre tenendo la mano chiusa si stringeranno pochi granelli. Lo zen insegna a concepire le opportunità e rifiutare il possesso di ciò che può divenire un ostacolo per la vita. Un esempio della mente ingannevole è fornito dall’immagine della scimmia che si agita e tormenta perché non riesce ad afferrare il riflesso della luna nell’acqua. Quante volte la mente umana si comporta così, tormentandosi e agitandosi nel tentativo di possedere qualcosa? Una domanda senza soluzione è sufficiente a gettare nell’angoscia e nelle tribolazioni. Pur essendo evidente la dannosità di un simile atteggiamento, non si riesce ad evitarlo. La mente non è addestrata a rifiutare la tentazione delle cattive abitudini. La pratica dello zen consiste nello sforzo supremo di imparare a guidare la mente, e non farsi trascinare e controllare dalla mente ingannata e ingannevole. Si comincia osservando la mente e imparando a conoscerla. Quando ciò è avvenuto, la mente non è più un avversario che si scontra con la realtà, ma un compagno di viaggio. Sconcertante, eppure lo zen è semplicemente questo.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch’an, Mondadori, Milano, 1992.
Deshimaru, Taisen, Autobiografia di un monaco zen, Mondadori, Milano, 1995.
Guareschi, Fausto Taiten (a cura di), Guida allo zen, De Vecchi Editore, Milano, 1994.
Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il Melangolo, Genova, 1993.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Mondadori, Milano, 1981.
Lamparelli, Carlo, Il libro delle 399 meditazioni zen, Mondadori, Milano,
La Rosa, Giorgio Dizionario delle religioni orientali, Garzanti, Milano, 1993.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002.
Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia, 1992.
Suzuki, Shunryu, Mente zen, mente di principiante, Astrolabio, Roma, 1977.
Watts, Alan, Beat zen e altri saggi, Arcana, Milano, 1978.

Mu, il nulla

Mu, il nulla indicibile
di Cristiano Martorella

16 maggio 2002. Fra i concetti filosofici esposti dal buddhismo zen, riveste una particolare importanza la singolare concezione del nulla (mu). Molti studiosi hanno evidenziato la profonda differenza fra la concezione orientale del nulla e la definizione occidentale assunta nel mondo moderno. In generale si intende il nulla come mancanza, assenza, o negazione. Queste definizioni non corrispondono al nulla del buddhismo zen.Hisamatsu Shin'ichi ha dedicato un testo, intitolato La pienezza del nulla, all'analisi delle differenze fra la concezione del nulla propria dello zen e le altre. Hisamatsu distingue alcune interpretazioni del nulla che non corrispondono affatto al nulla dello zen.

1) Nulla come negazione della presenza.
2) Nulla come negazione del giudizio.
3) Nulla come idea.
4) Nulla come prodotto dell'immaginazione.
5) Nulla come assenza di coscienza.

Il nulla come negazione della presenza nega l'esistenza di un ente in un luogo o in assoluto. Questa interpretazione del nulla, molto diffusa, si poggia sulla concezione dell'essere come presenza. Ma alcuni filosofi (fra cui Martin Heidegger) hanno contestato questa concezione ritenendola equivoca e limitativa.In Essere e tempo, Martin Heidegger rintraccia nella filosofia di Cartesio la concezione dell'essere come res extensa semplicemente presente. Come suo contrario viene così definito il nulla, ossia la negazione della presenza. Tuttavia questa definizione risulta insufficiente e fallace. L'essere non può venir inteso soltanto tramite una sua determinazione: la presenza. Così il nulla non può intendersi come l'assenza di una presenza. Si tratta della consueta modalità del pensiero occidentale caratterizzata dal dualismo e dal ragionamento tramite negazioni. Si definisce qualcosa come opposizione e negazione.Il buddhismo ricorre invece a una grande libertà di associazione poiché ritiene l'essere come una natura immanente. Il pensiero quotidiano, al contrario, rischia di limitare la comprensione del mondo escludendo le infinite possibilità dell'esistenza.Il nulla come giudizio è semplicemente la negazione di un predicato. Ad esempio, "il serpente non è un mammifero". Si tratta però di un formalismo. Ciò che viene negato è l'asserzione intorno a qualcosa. Infine conosciamo pochissimo sulla vera natura delle cose.Il nulla come idea è un'altra astrazione. Quando diciamo che "il nulla non è l'essere" abbiamo soltanto stabilito un'opposizione.Ci accorgiamo così di conoscere ben poco su concetti che usiamo abitualmente come il nulla e l'essere. Il buddhismo zen riconosce questa nostra ignoranza e l'attribuisce al nostro modo consueto di ragionare. Perciò ritiene essenziale abbandonare gli schemi concettuali prestabiliti. Per far ciò preferisce l'applicazione di metodi pratici come la meditazione, ma non esclude la speculazione utilizzando i paradossi logici (koan) che distruggono ogni rappresentazione intellettuale.Hisamatsu fa notare come il nulla orientale non corrisponda alla concezione moderna dell'Occidente perché non suppone l'opposizione fra nulla ed essere. Egli ricorda in proposito lo Hyakuron di Daiba:

"Tutto, essere e non-essere, è nulla. Perciò ogni dottrina buddhista insegna che nella nostra vera essenza tutto, essere e non-essere, è nulla."

Hisamatsu introduce un altro argomento che ci permette di capire meglio questo punto. Il nulla dello zen non va interpretato come un'entità metafisica oppure ontologica. Perciò si esclude che esso sia l'esistenza o la mancanza di esistenza. L'autentico nulla dello zen è tutto perché è un principio psicologico che permea l'io. Ogni nostra sensazione e conoscenza si trova nell'io che è assoluta illusione, ovvero nulla. In questo senso tutto, davvero tutto, è nulla. Se pensiamo per un attimo di annullare l'io della nostra persona ci accorgiamo che spariscono anche le sensazioni e con loro l'intero mondo. La scoperta del buddhismo è talmente dirompente da costituire una novità anche per gli orientali. Lo zen, per molti versi, si oppone e costituisce una critica nei confronti del taoismo e del confucianesimo. Takuan Soho (1573-1645) scrisse nel Tokaiyawa parole molto dure in proposito:

"Il confuciano fraintende il vero nulla, lo rifiuta. Infatti lo considera unicamente un non-qualcosa e non capisce. Io chiamo vero nulla il fatto che non si serbi nulla nel proprio cuore. Ma il cuore è un attore che rappresenta ogni ruolo. Io chiamo vero nulla il fatto che il cuore non possa esaurire sé in nessun ruolo. Il vero nulla di cui parlo è ciò che è libero da ogni ruolo e da ogni compito."

Takuan ripresenta la concezione dello zen che interpreta il nulla come una condizione psicologica capace di operare positivamente. Ed è infatti questo nulla che libera l'uomo da ogni preconcetto e atteggiamento. Secondo Suzuki Daisetsu, il nulla giunge continuamente a portata della nostra mano, è sempre con noi e in noi, condiziona la conoscenza, i nostri atti, la stessa vita. Ma quando tentiamo di coglierlo e presentarlo come una cosa, esso ci elude e svanisce.Si capisce che il nulla dello zen non può essere né metafisico, né ontologico, ma nemmeno psicologico. Esso è tutte queste cose insieme e nessuna di esse presa singolarmente. Secondo Hisamatsu, questo nulla è onnipresente e si estende sulla totalità dei fenomeni fisici e psichici, eppure non ha manifestazione conoscibile dai sensi. Il nulla dello zen esclude ogni possibilità di essere determinato, ed è perciò veramente puro e intatto poiché assolutamente intangibile.Cos'è dunque questo nulla? Come si può descriverlo se è indicibile? Il buddhismo ricorre alla metafora dell'onda. Un'onda non cade dall'acqua dall'esterno, ma proviene dall'acqua senza separarsene. Scompare e torna all'acqua da cui ha tratto origine e non lascia nell'acqua la minima traccia di sé. Come onda si solleva dall'acqua e torna all'acqua. Come acqua esso è il movimento dell'acqua. Come onda l'acqua sorge e tramonta, e come acqua non sorge e non tramonta. Così l'acqua forma mille e diecimila onde e tuttavia resta in sé costante e immutata. Questa è l'essenza del nulla zen.
Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del Buddhismo Ch'an, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L'incontro con la cultura cinese, Graphos, Genova, 1992.
Heidegger, Martin, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976.
Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il melangolo, Genova, 1993.
Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996.
Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 1992.
Sekida, Katsuki, Zen Training. Methods and Philosophy, Weatherhill, New York, 1975.
Suzuki, Daisetsu, The Zen Doctrine of No-Mind, Rider & Co., London, 1958.
Suzuki, Daisetsu, An Introduction to Zen Buddhism, Rider & Co., London, 1969.
Takuan, Soho, Lo zen e l'arte della spada, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001.

Ronri

Ronri, la logica giapponese del concreto
di Cristiano Martorella

25 giugno 2002. La parola giapponese ronri traduce sia nel linguaggio ordinario sia nella terminologia filosofica la parola logica. Ma la corrispondenza fra le due parole, se è possibile nel linguaggio ordinario, presenta enormi divergenze e differenze nel pensiero filosofico. Ronri è composto da due kanji: ron (discussione, teoria) e ri (ragione). Però il significato di ragione è decisamente diverso nelle antiche civiltà orientali. Elémire Zolla, nel suo La nube del telaio, ci ricorda questa distinzione.

"[…] li [la ragione: li in cinese, ri in giapponese; ndr] nel suo ideogramma contiene un campo sul quale si impianta un villaggio. L’irrazionale sarà dunque ciò che non rientra nelle costumanze di un borgo. In genere nelle civiltà orientali l’opposizione di ragione a irrazionalità non ha il pathos che la contrassegna in Europa. Uno dei motivi è che la diade si trasfonde naturalmente in triade o una quadripartizione. Questa propensione si può chiamare, oltre che indiana, orientale in genere. […] Nel sistema castale indù il contrasto fra l’emozione scatenata ed energica del guerriero e la razionale quiete del bramino è mediato dalla convivenza con la casta dei mercanti e quella dei contadini […] Sempre in India la diade si risolve in triade e quindi in mediazione. Fra conoscente e conosciuto media il conoscere, fra soggetto e oggetto l’unione, fra amante e amato l’amore. Si può dire che fra ragione e irrazionalità, nella misura in cui si presentino, media l’ispirazione."

Zolla fa notare anche che la logica indiana non ignorava le regole della logica rigorosa del genere aristotelico. Questi meccanismi del pensiero era conosciuti ed erano stati enunciati nel Nyaya Sutra nel periodo compreso fra il 200 a.C. e il 150 d.C., così come il sillogismo esposto in cinque passaggi (tesi, enunciazione, ragione, esempio probante, applicazione). Dunque la sapienza orientale partiva dal riconoscimento di questi meccanismi del pensiero, ma li considerava insufficienti (al contrario degli occidentali che li pongono come princìpi). Fu soprattutto il buddhismo a enfatizzare questa considerazione della logica, della ragione e del pensiero. Nagarjuna, saggio buddhista indiano vissuto intorno al II secolo d.C., mise in crisi le poche certezze della logica e del pensiero discorsivo nello Sterminio degli errori. Elémire Zolla riassume così le caratteristiche salienti del buddhismo:

"La logica buddhista nega che di qualsiasi oggetto si possa dire che esista o non esista, che esista e non esista, o che non esista e non esista […]"

Il pensiero occidentale in modo indipendente si avvicinò spesso alle stesse posizioni, ma fu presto ricondotto nei binari della logica formale, nella tradizione aristotelica-tomistica. Ad esempio, Johannes Eckhart (1260-1327) aveva esposto gli stessi dubbi sulla logica giungendo a conclusioni simili ai saggi buddisti, ma ricevette gravi accuse di eresia. La logica occidentale, supportata da un apparato politico e ideologico (rinnegarla significava bruciare sul rogo come accadde per Giordano Bruno nel 1600), indicava una rigida corrispondenza fra realtà e pensiero. Il principio era esposto come adaequatio rei et intellectus. La verità era una semplice corrispondenza fra il pensiero e le cose. Una concezione estremamente lontana e incompatibile dalla logica buddhista. In effetti si deve considerare seriamente la pericolosità del pensiero occidentale che pretende di poter ricondurre la realtà ad un’immagine mentale (rappresentazione). In questo modo sfuggirà la complessità e pluralità dell’esistenza, e per non ammettere l’ignoranza si negherà e violenterà la realtà finché apparirà come la pensiamo.
Invece il buddhismo ammette e riconosce l’ignoranza ritenendo che lo scopo della dottrina sia renderci consapevoli dell’ignoranza piuttosto che inorgoglirci della conoscenza. La consapevolezza dell’ignoranza è uno dei "sei pilastri della saggezza" (consapevolezza dell’io, del presente, dell’impermanenza, dell’universo, dell’ignoranza, dell’amore).
Nel XIX e XX secolo la filosofia giapponese si arricchì di ulteriori riflessioni avendo approfondito lo studio del pensiero occidentale (non sempre arroccato sulle consuete e fallaci posizioni che abbiamo prima esposto). I filosofi giapponesi trovarono estremamente interessante l’elaborazione intellettuale degli europei, in particolare Georg Wilhelm Friedrich Hegel che esponeva un sistema in cui la mediazione fra gli opposti era un passaggio indispensabile. Inoltre la distinzione fra spirito e materia era da Hegel decisamente ridimensionata, se non addirittura rifiutata. Fatto estremamente gradito ai buddisti che, come visto in precedenza, ritenevano fuorviante porre distinzioni nella sfera dell’essere.
Fu proprio lo studio dei sistemi filosofici occidentali a spingere i filosofi giapponesi all’elaborazione di una logica che recuperasse la tradizione nipponica inserendola nel moderno contesto degli studi internazionali. L’esigenza era avvertita poiché si riteneva insufficiente la logica occidentale e incapace di spiegare il pensiero orientale.
Nishida Kitaro (1870-1945) introdusse il termine toyoteki ronri (logica orientale) per applicare una distinzione e sollevare la questione delle diverse tradizioni filosofiche. Egli propose una logica definita basho no ronri (logica del luogo) che comporta l’identità dei contrari (nozione orientale presente anche nel pensiero greco con Eraclito intorno al V scolo a.C.). Secondo Nishida l’uno e il molteplice sono soltanto due punti di vista della stessa realtà (1). La determinazione lineare e la determinazione circolare, l’una tipica del pensiero occidentale e l’altra del pensiero orientale, sarebbero anch’esse due aspetti diversi della stessa realtà. E non sarebbero affatto in contraddizione come usualmente si crede. Elaborando il pensiero di Hegel, e arricchendolo dell’esperienza e della riflessione del buddhismo, Nishida perviene a una risoluzione di questa opposizione apparente (2). Analizzando la concezione del tempo e dello spazio si riconoscono i due modi di determinare: lineare e circolare. Il tempo è comunemente concepito come lineare, esso andrebbe dal passato al futuro. Ma se il passato è quello che è stato, e il futuro è quel che deve venire, il presente, determinato dal passato e dal futuro, non ha senso (3). Il presente non può essere determinato dal passato e dal futuro in questo modo. Ciò che conosciamo è soltanto l’attimo presente. In conclusione, il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente. Poiché la simultaneità è la caratteristica dello spazio, secondo Nishida anche il tempo è spaziale. Le determinazioni del tempo sarebbero possibili in due modi, l’uno lineare, rappresentato da una linea verticale, l’altro da uno spazio orizzontale, rappresentato da un cerchio che si chiude.

"L’esterno è l’interno, l’interno è l’esterno, l’uno è il molteplice, il molteplice è l’uno".

Così Nishida riporta la logica formale nell’ambito della sua fondazione, alle categorie di spazio e tempo che il processo di astrazione aveva completamente nascosto.
La logica del luogo costituisce un superamento della logica aristotelica, ma nello stesso percorso della filosofia occidentale intrapresa da Hegel. Se Immanuel Kant riteneva che la logica avesse raggiunto con Aristotele il suo compimento e non avesse potuto compiere nessuno miglioramento (4), non era così per Hegel e Nishida che raccolsero la sfida. Innanzitutto bisognava liberarsi di due ceppi: il principio di non-contraddizione e il principio d’identità.
Il principio d’identità afferma l’identità di una cosa con se stessa: a = a.
Il principio di non-contraddizione afferma che una cosa non può contemporaneamente essere e non essere: ~ ( a ^ ~ a ).
Questa liberazione fu possibile riportando la logica nel concreto, ossia nell’ontologia. In Oriente la logica non si era mai spostata dall’ambito pratico e concreto all’ambito astratto e speculativo perché il pensiero induista lo impediva (le forme del divino non erano mai trascendentali ma in maniera pagana materiali), il pensiero buddhista lo riteneva ingannevole (i pensatori buddhisti conoscevano bene la logica formale e la ritenevano un’astrazione a volte riduttiva a volte estremista), e il pensiero confuciano la riteneva utile non in se stessa ma soltanto per fini pratici.
Ma i filosofi giapponesi del Novecento avevano presente anche l’enorme potere costituito dalla scienza logico-matematica. L’idea logico-formale permetteva di controllare il mondo tramite misurazioni quantitative che riducevano la qualità del fenomeno a serie numeriche. L’esercizio del potere era esercitato tramite freddi calcoli che eliminavano ogni indecisione e riserbo. Il dominio dell’uomo sulla natura era totale e onnipotente. Una forza che avrebbe piegato anche le categorie della logica aristotelica. Può una città sparire in pochi secondi? L’essere può ridursi in nulla in un istante? All’incredulità degli Eleati rispose la storia il giorno 6 agosto 1945 ad Hiroshima.
La filosofia, sia occidentale sia orientale, non era stata in grado di contenere questo potere straordinario ed equilibrare le forze della tecnica e le volontà degli uomini.
Tanabe Hajime (1885-1962) si era occupato degli stessi problemi logici di Nishida, e aveva proposto una logica della specie (shu no ronri). Con specie o classe, si intende quel concetto capace di mediare l’universale e il particolare. La classe delle mele indica tutte le mele, la classe della frutta indica mele, pere, etc. Ma nel dopoguerra Tanabe pervenne a un ripensamento basato sui tragici eventi storici. Tanabe riconobbe di aver accentuato l’importanza dello stato nazionale, e che ciò proveniva dall’uso eccessivo del principio d’identità. In Zangedo toshite no tetsugaku (Filosofia come penitenza) segnalò i limiti della ragione rispetto all’esistenza e indicò il male come una assolutizzazione della prospettiva dell’individuo (5). Invece vedere e riconoscere le diversità sarebbe l’atto di libertà che permetterebbe la serena esistenza dell’essere umano. Tanabe Hajime, spesso critico nei confronti di Nishida, ne riconobbe infine la capacità di relativizzazione di ogni prospettiva.
La logica, all’interno della filosofia, doveva preservare e custodire le differenze aprendo il pensiero alla pluralità del mondo, invece di chiuderlo negli schematismi che si impongono come dominio.
Takahashi Satomi (1886-1964) riprese l’idea di elaborare una logica unitaria che unificasse la tradizione orientale e la scienza occidentale. Perciò propose una "dialettica avvolgente" (hobenshoho) che si presentava come inclusione fondamentale di ogni dialettica. Secondo Takahashi Satomi la dialettica avvolgente era metalogica. Ma egli evita comunque di indicare il piano trascendentale come risolutivo, anzi tiene ancorato l’intelletto all’esperienza concreta (ovvero l’immanente).

"La filosofia è un sistema intellettuale della totalità dell’esperienza che noi, di volta in volta, possiamo raggiungere."

Tanabe Hajime riteneva invece che la filosofia non potesse limitarsi a riconoscere la contraddittorietà dell’esistenza, piuttosto dovesse elaborare una mediazione continua della logica con l’irrazionalità dell’esistenza. Perciò propose la dialettica della mediazione assoluta (zettai baikai no benshoho). Takahashi Satomi si oppose, anche apertamente, alle soluzioni proposte dai suoi colleghi.

"Nishida e Tanabe cercano di portare dentro la logica ciò che è al di là della logica. Contrariamente a ciò, io tento di mantenere la filosofia come logica e pongo la religione in quanto al di là della logica come al di sopra o al di fuori della filosofia."

Anche se le posizioni dei filosofi giapponesi del Novecento sono diverse, e ciò dovrebbe essere considerato una ricchezza piuttosto che una penalità, le caratteristiche della logica giapponese sono decisamente evidenti. I filosofi giapponesi cercarono di limitare il potere di astrazione della logica e cercarono di stabilire un equilibrio fra il pensiero formale e l’esperienza concreta. Questa concretezza della logica giapponese venne ben riassunta da Nishida Kitaro.

"Ci sono probabilmente diverse opinioni sulla natura della verità, per me essa è quello che si avvicina maggiormente all’esperienza concreta. Di solito si afferma che la verità è universale. Ma se con ciò si vuol intendere che essa è un’astrazione, si batte una strada falsa. La verità assoluta è il dato concreto e immediato che sintetizza i vari aspetti. Esso è alla base di tutte le verità, e ciò che di solito viene chiamato verità ne è stato desunto per astrazione. La verità è considerata sintetica, ma questa sintesi non è una sintesi di concetti astratti. La vera sintesi si trova nel dato immediato." (6)

Anche se può sembrare paradossale la logica giapponese si propone come una sintesi dell’astratto e del generale nel concreto particolare. Ma questa apparente contraddizione è soltanto la caratteristica naturale della realtà. Il pensiero, e quindi la logica formale, non è altro che una costruzione che parte dal concreto, e come tale fa parte del reale, e al reale deve essere riportata.


Note

1. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1949, vol.1 p.86 e vol.7 p.204.
2. Il debito alla filosofia di Hegel è enorme e segnalato dalle citazioni dello stesso Nishida. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu bekkan 1, Iwanami shoten, Tokyo, 1951, p.4. Il buddhismo traspare negli scritti e rappresenta una delle scelte di vita fondamentali di Nishida.
3. Qui è esplicita la ripresa della posizione hegeliana, poi ripresa anche implicitamente da Heidegger. "Il tempo è l’essere che mentre è, non è, e mentre non è, è ".Cfr. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Sez.1 Par.258, Laterza, Roma, 1987, p.233.
4. Cfr. Kant, Immanuel, Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, Laterza, Bari, 1966, pp.15-16.
5. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tetsugaku, Iwanami shoten, Tokyo, 1946.
6. Nishida, Kitaro, Zen no kenkyu, Iwanami shoten, Tokyo, 1993, p.46.

Bibliografia

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Shiso

Shiso, il pensiero giapponese
La filosofia oltre lo scontro di civiltà
di Cristiano Martorella

22 settembre 2002. Affermare che la filosofia giapponese abbia un carattere universale e internazionale può sembrare provocatorio. Ma cosa può svegliare dal torpore dell’intelletto che sembra essersi rassegnato alla banalità del male? La resa incondizionata all’idea dello scontro di civiltà (clash of civilizations) è condivisa da molti, però non da tutti (1). Così la provocazione può dimostrarsi un’autentica rivelazione.
In giapponese si indica con shiso il pensiero, in particolare il pensiero filosofico o concettuale. Il termine è composto da due kanji: il primo (shi) è lo stesso del verbo omou (pensare), il secondo (so) è anch’esso letto omou ed è sinonimo di pensiero, idea. Dunque shiso è il pensiero speculativo o filosofico, mentre il pensiero comune o un pensiero qualunque è indicato dalla parola kangae. Questa distinzione introdotta nella lingua giapponese è stata necessaria a causa della differente concezione del pensiero nell’antica cultura giapponese. Questo diverso contesto linguistico e concettuale implica un’opposizione assente in altre lingue come l’inglese o l’italiano. Il verbo omou, infatti, indica il pensare (to think), ma anche il sentire (to feel), il credere (to believe), lo sperare (to hope) e il volere (to want). L’aspetto puramente concettuale del pensiero doveva essere indicato con un altro termine coniato appositamente, appunto shiso. Ciò ci mette in guardia e ci anticipa la considerazione dei saggi giapponesi nei confronti del pensiero, una stima molto influenzata dal buddhismo e fortemente critica.
Il Buddha Shakyamuni insiste sull’importanza di mantenere il controllo sul pensiero che essendo illusorio per sua natura è potenzialmente nocivo. Questo insegnamento è esposto anche nel Dhammapada (in sanscrito Dharma-pada, Versetti della Legge).

"Si domini il pensiero, inafferrabile, leggero, che si getta su ciò che gli piace. Il pensiero domato è portatore di felicità. Custodisca l’uomo accorto il pensiero, difficile da percepire, guizzante, che si getta su ciò che gli piace. Il pensiero ben guardato porta felicità. Coloro che controllano il pensiero, che viaggia lontano, che cammina solo, incorporeo, che alloggia nel cuore, costoro si liberano dei vincoli del male." (Dhammapada, III, 35-37)

Ma il buddhismo non si limita ad affermare la fallacia del pensiero che necessita quindi di continuo controllo (altrimenti si getterebbe "su ciò che gli piace"). Il buddhismo Mahayana stabilisce che la realtà stessa è pensiero. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota, si riconosce il Buddha (Vajracchedika, 5). Le pretese del pensiero speculativo vengono addirittura ridicolizzate. Buddha paragona il filosofo a un ferito che, anziché farsi medicare, vuole sapere chi l’ha colpito, di quale materiale è composta la freccia, e così via. Quest’uomo si perde in questioni irrilevanti, trascurando l’essenziale (Majjhima nikaya, 63).
Il succo dell’insegnamento buddhista è il dharma (legge) che può essere riassunto come il riconoscimento della natura del reale:

1) Impermanenza del pensiero
2) Impermanenza dei fenomeni della realtà
3) Interconnessione e relazione dei fenomeni

Nel suo atteggiamento radicalmente antispeculativo, il buddhismo proclama il carattere "vuoto" del dharma. La dottrina del Buddha non è una teoria, ma un esercizio per liberare l’uomo. Come tale essa è vuota (sunya). Buddha Shakyamuni affrontò la questione con una parabola. Egli paragonò la dottrina buddhista a una zattera, utile per arrivare da qualche parte, ma va poi accantonata una volta raggiunto lo scopo o la terraferma (Majjhima nikaya, 22). Il valore dei princìpi buddhisti è puramente strumentale. Attinta l’illuminazione, essi si rivelano superflui, per non dire paralizzanti. La zattera di Buddha è come la scala del filosofo Ludwig Wittgenstein.

"Le mie proposizioni sono chiarificazioni le quali illuminano in questo senso: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse - su esse – oltre esse. Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito. Egli deve superare queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo." (Tractatus Logico-Philosophicus, 6.54)

Se Buddha Shakyamuni aveva contestato la realtà assoluta del pensiero, fino a capovolgere la questione e sostenere che la realtà stessa sarebbe soltanto pensiero, il buddhismo zen giapponese ha amplificato questa riflessione rigettando ogni dottrina speculativa e preferendo i metodi pratici. Lo zen insiste sul riconoscimento dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo) e sull’unica realtà che costituisce l’universo ossia il nulla (mu). Questa posizione vanifica ogni tentativo di afferrare con il pensiero qualcosa che si rivela inafferrabile semplicemente perché vuoto. Ma costituisce anche l’abbattimento della barriera che ci separa dal mondo e dagli altri esseri viventi.

"Nella mia tradizione, ogni volta in cui giungo le mani per inchinarmi profondamente davanti a Buddha recito questa breve strofa: Colui che si inchina e porta rispetto, e colui che riceve l’inchino e il rispetto, sono entrambi vuoti. Per questa ragione la comunione è perfetta." (2)

La filosofia giapponese rompe con la tradizione speculativa che considera il pensiero come un oggetto reale e si ricongiunge con le posizioni più avanzate della filosofia occidentale. Non bisogna supporre che l’atteggiamento della filosofia giapponese nei confronti del pensiero sia isolato, poiché esistono delle fortunate eccezioni. Questo è il caso di Ludwig Wittgenstein che giunse a sostenere perfino che il significato di una parola è il suo uso (ammettendo dunque il carattere vuoto del pensiero).

"I filosofi, che credono che pensando si possa, per così dire, estendere l’esperienza, dovrebbero riflettere che per telefono si può trasmettere un discorso, ma non il morbillo. […] Nei miei pensieri, con le parole, non posso certo carpire una previsione di qualcosa che non conosco (Nihil est in intellectu). Come se potessi arrivare al pensiero, per dir così, dal di dietro, e furtivamente gettare uno sguardo su ciò, che dal davanti mi è impossibile scorgere. Perciò c’è qualcosa di vero nel dire che l’inimmaginibilità è un criterio dell’insensatezza." (3)

Wittgenstein abbandona la concezione del pensiero come di qualcosa superiore alle percezioni e dunque perfetto. Al contrario, il pensiero non ha una natura propria piuttosto è l’apparenza di un comportamento umano (questa dottrina è chiamata "comportamentismo logico" ed è attribuita anche al filosofo Gilbert Ryle) (4). Una formula va intesa come una prassi determinata dall’uso.

"Si può dire: "Il modo in cui la formula viene intesa determina quali passaggi si debbano compiere". Qual è il criterio per stabilire in che modo viene intesa la formula? Forse il modo e la maniera in cui la usiamo costantemente, il modo in cui ci è stato insegnato ad usarla." (5)
Ciò si estende all’intero linguaggio (e dunque al pensiero). Il significato di una parola è il suo uso.
"Ma allora il significato di una parola che comprendo non può convenire al senso della proposizione che comprendo? O il significato di una parola convenire al significato di un’altra? Certo, se il significato è l’uso che facciamo della parola, non ha alcun senso parlare di un tale convenire." (6)

Qual è però il rapporto fra questa filosofia nippo-europea e lo scontro di civiltà evocato all’inizio? Paradossalmente è estremamente semplice. Nell’Ottuplice Sentiero (astanga-marga) esposto da Buddha, si succedevano la retta conoscenza, il retto pensiero, la retta parola, la retta azione e la retta condotta di vita. Se ci liberiamo dai ceppi del pensiero, il cambiamento immediato si ripercuoterà nella nostra vita. Per quanto riguarda lo scontro di civiltà, è sufficiente smettere di pensare l’esistenza e la legittimità della guerra santa. Finché crederemo alla logica della guerra non avremo alternative, poiché lo scontro esisterà fino al giorno in cui lo penseremo. La guerra non è una realtà immutabile, ma la proiezione mentale delle paure umane. Combattiamo perché pensiamo che sia inevitabile. Se gli uomini continueranno a concepire le relazioni sociali soltanto in termini di scontro, ebbene non vi sono altre possibilità. L’errore è nell’attaccamento a questo pensiero.
Così Shibayama Zenkei auspica il successo della filosofia giapponese per il benessere e la pace dell’umanità.

"Oggi il mondo intero, in Oriente e in Occidente, sembra attraversare un periodo di convulsa trasformazione, un’epoca di travaglio in cui cerca di dar vita a una nuova cultura. Le tensioni che colpiscono tante parti del nostro pianeta non possono certo avere un’unica causa, ma una delle principali è certamente il fatto che, mentre sono stati compiuti notevoli progressi nell’uso della moderna conoscenza scientifica, noi esseri umani non ci siamo sviluppati abbastanza sul piano spirituale ed etico per vivere in queste nuove condizioni. E’ quindi assolutamente necessario dar vita a una nuova civiltà, attraverso una più profonda comprensione dell’essere umano e un più alto livello di spiritualità. […] Lo zen rappresenta una cultura spirituale unica in Oriente; possiede una lunga storia e antiche tradizioni e io credo che abbia fondamentali valori universali in grado di contribuire a creare una nuova civiltà spirituale." (7)

Non ci sono molte alternative. Se non si perverrà, come auspicato da Shibayama, alla costituzione di una filosofia che unisca Oriente e Occidente, non vi sarà più una filosofia. E non ci sarà filosofia perché non ci sarà umanità. La filosofia nippo-europea costituisce il primo tentativo di questa filosofia del futuro.

Note

1. Fu Huntington a coniare l’espressione "scontro di civiltà". Cfr. Huntington, Samuel, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York, 1996 (trad. it. Lo scontro di civiltà e la ricostruzione dell’ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997). La sua tesi fu criticata duramente da Fukuyama. Cfr. Fukuyama, Francis, The Great Disruption, Free Press, New York, 1999 (trad. it. La Grande Distruzione, Baldini & Castoldi, Milano).
2. Thich Nhat Hanh, The Heart of Understanding: Commentaries on the Prajna-paramita Heart Sutra, Parallax Press, Berkeley, 1988.
3. Wittgenstein, Ludwig, Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino, 1986, p.58-59.
4. Cfr. Ryle, Gilbert, Lo spirito come comportamento, Einaudi, Torino, 1955.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, p.103.
6. Ibidem, p.74.
7. Shibayama, Zenkei, Un fiore non parla. Saggi zen. Arnoldo Mondadori, Milano, 1999, p.9.

Bibliografia

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Chishiki

Chishiki
La conoscenza attraverso la consapevolezza dell’ignoranza
di Cristiano Martorella

18 settembre 2002. Chishiki to mushin, ovvero conoscenza e vuoto mentale. Due realtà apparentemente opposte. Però la filosofia giapponese fornisce alcuni concetti alternativi al pensiero occidentale che costituiscono un fondamentale arricchimento del sapere umano. Questa semplice osservazione si rivela ancor più vera dinanzi ai concetti di conoscenza (chishiki) e ignoranza.
Negli ultimi anni si è consolidata in Occidente una concezione della conoscenza esposta dall’epistemologia americana. In particolare il funzionalismo computazionale ha propagandato una visione del pensiero riconducibile alla macchina a stati finiti ideata da Alan Turing. L’idea di una macchina pensante fu sostenuta da Turing in un celebre articolo apparso nella rivista "Mind" nel 1950 (1).
Piuttosto che affrontare complesse indagini sulla natura del pensiero, Alan Turing si limitò a proporre la possibilità che una macchina potesse imitare le risposte di un uomo rendendosi indistinguibile. Il "test di Turing" prevedeva che l’intelligenza artificiale non sarebbe stata distinguibile dall’intelligenza umana.

"Un computer è paragonabile a un essere umano, quanto a intelligenza, se gli esseri umani non possono distinguere le prestazioni del computer da quelle dell’essere umano." (2)

Il successo del funzionalismo computazionale fu favorito dal rapido sviluppo dei calcolatori e dell’informatica che sembrava convalidare le tesi e l’ottimismo di Alan Turing (3). Ma la tesi secondo cui la mente funziona come un computer digitale non si basa su risultati concreti, piuttosto è la considerazione dell’idea dell’intelligenza come calcolo e manipolazione formale di simboli (una tradizione consolidata nella scienza occidentale e anticipata da Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz). Si tratta dunque di una teoria interna alla filosofia occidentale, e non è affatto un problema di ingegneria elettronica come appare.
Tuttavia l’intelligenza artificiale aveva assunto un ruolo talmente propositivo da diventare un argomento filosofico autonomo, specialmente in quella disciplina definita filosofia della mente (ma anche nella filosofia del linguaggio e della scienza, nella psicologia cognitiva, senza dimenticare il ruolo dominante nelle neuroscienze). L’epistemologia americana diede immensa considerazione alle teorie e ricerche di questi studiosi. Allen Newell ed Herbert Simon sembrarono rappresentare i capostipiti di una nuova concezione della mente, del pensiero e della filosofia. Qualcosa che sembrava fornire risultati più concreti delle precedenti tradizioni filosofiche. Jerry Fodor ed Hilary Putnam contribuirono ad elaborare un insieme di tematiche che diedero spessore e dignità all’intelligenza artificiale come disciplina filosofica. Ciò ebbe una ricaduta notevole sulle consuete concezioni di conoscenza e pensiero. Fodor fornì anche un tentativo di spiegazione del funzionamento della mente umana e del linguaggio (4).
Nonostante l’approccio orientato alla tecnologia, l’epistemologia americana si rivelava più conservatrice di quanto invece apparisse. Il modello dell’uomo come macchina era un’elaborazione cartesiana (5). Risulta interessante constatare come il dualismo cartesiano mente/corpo corrisponda al dualismo informatico software/hardware, rivelando l’antichità di questa concezione. E la formalizzazione del linguaggio era un progetto leibniziano (6).
L’epistemologia americana non ha fatto altro che radicalizzare una tendenza della filosofia occidentale giustificandola con i successi della tecnologia informatica. Purtroppo queste discipline sono accostate in modo arbitrario. L’ingegneria elettronica non necessita di alcuna giustificazione filosofica, mentre l’epistemologia sembra approfittare dei vantaggi dell’elettronica per avallare le sue tesi.
Il risultato più evidente e scandaloso è nella concezione della conoscenza come dato cumulativo. Il sapere è ridotto a una serie di informazioni, come in un database, conservate e organizzate. La filosofia orientale sembra non condividere questa visione della conoscenza. Addirittura lo zen suggerisce che la vera conoscenza sia soltanto quella ottenuta tramite il vuoto mentale (mushin). Comunque, il buddhismo sposta drasticamente l’attenzione dalla conoscenza alla consapevolezza dell’ignoranza. Credere di conoscere sembra la maniera più ovvia per evitare di conoscere. Perciò il buddhismo pone la "consapevolezza dell’ignoranza" come uno dei sei pilastri della saggezza.
La consapevolezza dell’ignoranza non è una dottrina esclusivamente orientale, ma apparteneva anche alla tradizione degli antichi greci. Il saggio Socrate, nominato dall’oracolo di Delfi come il più sapiente fra i greci, affermò di non sapere così da conoscere qualcosa in più rispetto a chi credeva di sapere senza sapere. A parte il contenuto sofistico della frase socratica, il filosofo ateniese era veramente coerente con quanto affermava. Lo zen rifiuta la dottrina scritta insistendo invece su metodi che risveglino la consapevolezza dell’allievo. Socrate applicava un metodo detto maieutica che rifiutava la scrittura preferendo ad essa il dialogo (dialéghesthai). L’Occidente vide nelle stranezze di Socrate un atteggiamento eversivo e politicamente pericoloso, e lo si condannò quindi a morte nel 399 a.C. Questo fu il caso più eclatante (ma non l’unico, si pensi anche a Giordano Bruno nel 1600) dell’intolleranza delle società occidentali nei confronti di chi metteva in dubbio la conoscenza ufficiale. Ciò rivelava anche quanto la conoscenza fosse identificata con il potere. Atteggiamento non dissimile da quello attuale nei confronti dell’informazione e dei mass-media.
Rompere i ceppi che imprigionano la mente umana è il compito che si è assegnato il buddhismo zen. A questo punto la conoscenza si rivela un fardello opprimente che ci impedisce di muoverci. D’altronde Buddha aveva insegnato che è l’attaccamento a generare la sofferenza. Ecco come Deshimaru riassume questi princìpi.

"Spezzare i legami, le abitudini, amare senza desiderio di possesso, agire senza finalità personali, tenere le mani aperte, donare, abbandonare ogni cosa senza paura di perdere: ecco la disciplina dell’adepto zen ! La verità risiede nella semplicità. […] Il maestro Dogen ha detto: Tenete le mani aperte, e tutta la sabbia del deserto passerà tra le vostra dita. Chiudete le mani, stringerete soltanto qualche granello di sabbia." (7)

Come si può pensare di conoscere se ci si attacca a quattro stracci di idee come a un feticcio? Il buddhismo zen vanifica l’edificio occidentale della sapienza come accumulazione di dati e ci apre una prospettiva molto più ricca. In concordanza con le posizioni più avanzate della filosofia occidentale (in particolare Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger) si mette in dubbio la concezione cumulativa della conoscenza.
Per il filosofo Nishida Kitaro la conoscenza è un’azione piuttosto che il possesso di dati.

"Secondo l’epistemologia tradizionale, la conoscenza viene costruita secondo il soggetto cognitivo, e all’opposto il dato è pensato come meramente materiale o latente. […] Tuttavia, conoscere è agire e per agire si deve dare un fondamento. Di che cosa si tratta? Deve essere sempre il mondo della realtà che viene colto nell’intuizione attiva." (8)

Insomma, la prospettiva del funzionalismo computazionale è viziata alla base dalla mancanza di un rapporto con la realtà (9). Non è sufficiente riprodurre il mondo nel computer per fingere di conoscerlo. E altrettanto vale per la mente umana che crede di conoscere tramite le rappresentazioni. La difficoltà non è quindi attribuibile alla tecnologia ancora una volta imputata ingiustamente di meriti o colpe che non la riguardano. Piuttosto questa conoscenza non è verace a causa di un errore filosofico, quindi umano. Ma questa consapevolezza può renderci ancora più disponibili e aperti verso il mondo, perché sapere di non sapere è il primo passo per il risveglio dell’intelletto.

Note

1. Turing, Alan, Computing Machinery and Intelligence, in "Mind", vol.59, 1950, pp.433-460.
2. Bechtel, William, Filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1992, p.194.
3. L’articolo di Turing era ben articolato e sviluppato, prendendo in considerazione anche le possibili obiezioni. Anche il filosofo Ludwig Wittgenstein prese in seria considerazione il quesito di Turing: "Potrebbe pensare una macchina?" Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, p. 150.
4. Fodor, Jerry, La mente modulare, Il Mulino, Bologna, 1988; Fodor, Jerry, Il problema del significato nella filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1990.
5. Descartes, René, Opere filosofiche, Laterza, Bari, 1986.
6. Russell, Bertrand, La filosofia di Leibniz, Newton Compton, Roma, 1972.
7. Deshimaru, Taisen, Il vero zen. SE, Milano, 1993, pp.24-25.
8. Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001, p.49.
9. Circa la posizione dell’epistemologia americana si legga anche l’opera di Hilary Putnam, importante esponente di questa corrente filosofica. Cfr. Putnam, Hilary, Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano, 1987.