mercoledì 27 febbraio 2008

Filosofia giapponese

Articolo di Cristiano Martorella pubblicato originariamente dal sito Nipponico.com.

Tetsugaku, la filosofia giapponese
di Cristiano Martorella
11 febbraio 2002. Quando gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. I sapienti dell’arcipelago nipponico avevano curato la loro formazione intellettuale con lo studio del sanscrito e del cinese, e l’approfondimento dei classici confuciani e buddhisti. E i risultati non erano mancati. Il monaco buddhista Kukai (774-835), conosciuto con il titolo di Kobo Daishi, inventò i kana tuttora utilizzati nel giapponese moderno. Egli li ottenne attraverso lo studio della scrittura sanscrita (devanagari) e una semplificazione dei kanji di origine cinese. Il sistema sillabico dei caratteri (kana) fu una conquista intellettuale notevole e permise uno sviluppo della scrittura. I kana, a differenza dei kanji, avevano un valore esclusivamente fonetico e permettevano anche la trascrizione di suoni (giseigo) e parole straniere (gairaigo), svolgendo tante funzioni linguistiche altrimenti impossibili.
Dunque l’arrivo della filosofia e scienza europea alla metà del XVI secolo trovò un ambiente intellettualmente florido. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale.
I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1600-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone (1). A differenza di altre nazioni europee (si pensi alla Spagna), l’Olanda non aveva mire espansionistiche feroci, ma applicava una politica che favoriva gli scambi commerciali e culturali. L’Olanda era anche divenuta il rifugio degli intellettuali nel XVII secolo grazie alle garanzie civili, alla tolleranza religiosa e alla libertà di pensiero consentita. Ciò spiega i rapporti privilegiati fra Olanda e Giappone, altrimenti impossibili (2).
Intanto si compilavano numerosi testi sulla sapienza dell’Occidente. Arai Hakuseki (1657-1725), per ordine dello shougun Ietsugu, interrogò il missionario italiano Giovanni Battista Sidotti e ne ricavò un libro intitolato Seiyo kibun (Rapporto sull’Occidente). Il testo raccoglie e tratta la storia europea, la geografia, la filosofia e religione. Arai Hakuseki riconosce la superiorità della scienza occidentale nei settori pratici (geografia, astronomia, chimica, etc.), ma rimane scettico ed esprime disprezzo nei confronti del cristianesimo ritenuto contraddittorio e superficiale.
Yamagata Banto (1748-1821) scrisse Yume no shiro (Al posto dei sogni) in cui affermava la sua concezione materialista del mondo a favore della scienza e contro le superstizioni.
"Gli occidentali osservano e fanno rilevamenti durante i loro viaggi tra un paese e l’altro. […] Non esistono teorie fallaci come quelle indiane, cinesi e del nostro paese. Bisogna credere alle loro teorie.
[…] I cinesi con disattenzione fanno affermazioni piene di errori, senza prima controllarle. E indiani e giapponesi le acquisiscono così come sono." (Yamagata Banto, Yume no shiro 1,25 e 12, 23)
Yamagata Banto espone anche importanti acquisizioni scientifiche dell’epoca: la teoria eliocentrica, la forma sferica e la rotazione della Terra, il movimento di marea, la teoria gravitazionale di Newton, la dinamica e l’elettrologia.
Nel 1774 Motoki Yoshinaga (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Shizuki Tadao (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese.
Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Fra gli studiosi di rangaku spiccarono Aoki Kon’yo, Arai Hakuseki, Asada Goryu, Hiraga Gennai, Maeno Ryotaku, Shiba Kokan, Shizuka Tadao, Sugita Genpaku, Takano Choei, Watanabe Kazan e Yamawaki Toyo.
Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale.
L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Takano Choei (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano Choei a suggerire la prima traduzione della parola occidentale "filosofia" (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un "sapere generale e fondamentale". Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Nishi Amane (1829-1897) (3).
Il nuovo termine era composto da due kanji: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). Al contrario di quanto affermato dagli studiosi italiani come Grazia Marchianò, Gino Piovesana e Carlo Saviani, il termine tetsugaku non è affatto la traduzione letterale di "amore del sapere"(4). Non vi è infatti presenza della parola amore nei kanji di tetsugaku. I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase "dori ni akaruku" (diventare chiaro tramite la ragione). A differenza degli insegnamenti confuciani (basati sul rispetto delle regole tramandate dagli avi) e della dottrina buddhista (antiteoretica e contemplativa), la filosofia nippo-europea (tetsugaku) utilizzava un metodo speculativo. L’applicazione del metodo speculativo (o dialettico) inventato dai greci verso il V secolo a.C., nell’ambito delle conoscenze già acquisite dalla filosofia orientale, diede vita a sistemi filosofici originalissimi compatibili con la scienza occidentale (5).
La filosofia nippo-europea tuttavia è ampiamente ignorata ancora oggi. Anche perché si rivela concorrenziale e alternativa alle dottrine epistemologiche d’origine americana attualmente dominanti. Ciò significa un ritardo storico nei confronti di un pensiero transnazionale che dovrebbe evitare le contrapposizioni fra "orientale" e "occidentale". Una perdita intellettuale che è anche una delle cause del clash of civilizations (scontro di civiltà) della nostra epoca.

Note
1. Per la rangaku e l’incontro del Giappone con la scienza occidentale si consulti il completo ed equilibrato testo di Andrea Tenneriello. Cfr. Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Edizioni Unicopli, Milano, 2001.
2. Cfr. Keene, Donald, The Japanese Discovery of Europe 1720-1830. Stanford University Press, Stanford, 1969.
3. Cfr. Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.
4. Cfr. Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il melangolo, Genova, 1998, p.23.
5. Si consideri, ad esempio, il successo della fenomenologia husserliana in Giappone. Cfr. Ogawa, Tadashi, The Kyoto School of Philosophy and Phenomenology, in Analecta Husserliana, vol.8, 1979, pp.207-221.


Bibliografia
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. I miti dell’antichità, Graphos, Genova, 1991.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L’incontro con la cultura cinese, Graphos, Genova, 1992.
Marchianò, Grazia (a cura di), La scuola di Kyoto. Kyoto-ha. Rubbettino, Soveria Mannelli,1996.
Miki, Kiyoshi, Tetsugaku nyumon, Iwanami, Tokyo,1940.
Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.
Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1966.
Piovesana, Gino, Filosofia giapponese contemporanea, Pàtron, Bologna, 1968.
Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma, Tokyo, 1976.
Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1963.



Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com. L'articolo è disponibile nel dizionario del sito Nipponico.com alla voce Tetsugaku.

domenica 24 febbraio 2008

La Verità e il Luogo

Articolo sulla filosofia giapponese pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.


La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese.
di Cristiano Martorella

Occuparsi di filosofia giapponese in Europa e America presenta due difficoltà peculiari. La prima consiste nella distanza sia fisica sia culturale della società giapponese, con delle evidenti ricadute nell’ignoranza dei testi che costituiscono la base delle argomentazioni filosofiche orientali. La seconda difficoltà, molto più profonda e ostica, è di genere filosofico, e consiste nel rifiuto della diversità culturale. L’apice di questo rifiuto è stato raggiunto da Donald Davidson in Verità e interpretazione. Nel par.13 intitolato Sull’idea stessa di schema concettuale, Davidson sostiene che non possono esistere schemi concettuali completamente diversi perché altrimenti sarebbero inintelligibili e incomunicabili. L’argomentazione sembra quindi ridimensionare il concetto di diversità che potrebbe essere solo parziale. Ma è una argomentazione basata sull’equivoco del concetto della diversità considerata come opposizione e contrarietà, e soprattutto sul fraintendimento operato nell’identificazione generica di comunicazione e significato. In Rinnovare la filosofia, Hilary Putnam smaschera l’errore di Donald Davidson, ed evidenzia l’arbitrio e la forzatura operati nei confronti della nozione di significato. La concezione formalista di Donald Davidson che lega il significato al valore di verità (attraverso la convenzione v e la teoria tarskiana) mal si adegua a comprendere il relativismo concettuale che ci viene presentato dalla filosofia giapponese e dalle altre filosofie orientali. Ovviamente l’influenza della filosofia analitica, di cui Davidson è il più degno esponente, si ripercuote sulla considerazione dei sistemi filosofici orientali considerati banalmente come rappresentazioni esotiche completamente irrazionali. Se invece accettiamo di mettere da parte l’idea della diversità come opposizione e contrarietà, e ammettiamo piuttosto che la diversità include anche la condivisione dei differenti significati del mondo (pluralismo epistemico), possiamo procedere nella riflessione senza cadere nella semplificazione e strumentalizzazione dello scontro di civiltà (clash of civilizations) tanto di moda. Tenteremo quindi di comprendere la filosofia giapponese con uno studio comparato che non escluda le somiglianze e nemmeno le differenze, tutto ciò per il vantaggio che la conoscenza dell’altro può apportare.
La diversità epistemica della filosofia giapponese ha origine dai princìpi e fondamenti di carattere buddhista che ne sono alla base. Innanzitutto l’ontologia giapponese concepisce l’esistenza come un continuo cambiamento. Il divenire è possibile perché i fenomeni non avrebbero una sostanzialità. Secondo un celebre detto buddhista, il nulla costituisce la realtà fenomenica. Il fenomeno è ciò che è vuoto, il vuoto è ciò che è fenomeno (shiki soku ze ku, ku soku ze shiki). Nel Vajracchedika si afferma con altrettanta radicalità questo principio. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota si riconosce il Buddha. Tutte le cose sono Buddha. Questa teoria potrebbe apparire incoerente e contraddittoria se non fosse stata sviluppata con dovizia e logica dai maestri della filosofia orientale. Nagarjuna, che approfondì la teoria della vacuità e dell’insostanzialità dei fenomeni, indicò come ogni cosa fosse interdipendente nel cosmo, e quindi indicò l’impossibilità delle cose a sussistere in maniera indipendente. Ogni cosa non ha propria sostanza, ma esiste in virtù delle relazioni con le altre. L’unica realtà autentica è il cosmo nella sua totalità. Ogni fenomeno è semplicemente la manifestazione effimera e transitoria dell’esistenza mutevole del cosmo. Questo è il principio dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo).
Dunque il dharma (la dottrina di Buddha) contiene il nucleo filosofico che caratterizza l’Estremo Oriente. In esso si possono distinguere tre insegnamenti: ku (non-sostanzialità), ke (transitorietà), chu (via di mezzo). Si è già vista l’impermanenza o transitorietà delle cose, così anche la non-sostanzialità o vuoto. Il terzo principio, la via di mezzo, esprime una logica che rifiuta il dualismo vero-funzionale. Per la filosofia giapponese, la realtà è continuo cambiamento, quindi non si possono definire i fenomeni secondo le categorie di vero e falso che sono ipostatizzazioni, ovvero astrazioni distanti dal reale. Il mondo non è bianco oppure nero, non corrisponde a una logica binaria. Il principio della via di mezzo afferma che il reale è pluralismo e complessità. Questa valutazione del pensiero non è soltanto un rifiuto della logica vero-funzionale e una adesione alle logiche polivalenti, ma è soprattutto una differente considerazione del pensiero che è ritenuto uno strumento d’indagine piuttosto che una attendibile rappresentazione del reale. Se la conoscenza del reale non può avvenire tramite il pensiero, allora com’è possibile? Secondo la filosofia orientale la conoscenza del reale (prajna) avviene soltanto tramite un’illuminazione. L’illuminazione (satori) è la condizione della conoscenza che non separa il soggetto e l’oggetto. La conoscenza del reale è conoscenza dell’interdipendenza dei fenomeni e dell’impossibilità dei fenomeni a sussistere indipendentemente. L’illuminazione non è perciò una conoscenza speculativa, ma è pura intuizione, un’esperienza a cui si può giungere attraverso le tecniche meditative. Il non-dualismo è concepibile perché in base a quanto detto in precedenza, la non-sostanzialità presuppone che non vi sia una reale divisione fra i fenomeni, nemmeno fra soggetto e oggetto. Non potrebbe essere altrimenti poiché essi non hanno sostanza. La divisione avviene soltanto nella mente che possiede spiccate capacità analitiche. Il principio di esho funi (non-dualismo di ambiente e soggetto) ribadisce che la vita non è possibile fuori dal suo ambiente, e quindi le cose vanno concepite come sistemi complessi dotati di articolate relazioni piuttosto che come entità singole e indipendenti.
Adesso che abbiamo brevemente visto i fondamenti della filosofia giapponese, possiamo passare a considerare i rapporti con la filosofia occidentale. Quando nel XVI secolo gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. L’arrivo della filosofia e scienza europea trovò un ambiente intellettualmente florido grazie alla filosofia buddhista già diffusa. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale. I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone. Nel 1774 Yoshinaga Motoki (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Tadao Shizuki (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese. Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale. L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Choei Takano (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano a suggerire la prima traduzione della parola occidentale "filosofia" (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un sapere generale e fondamentale. Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Amane Nishi (1829-1897). Il nuovo termine era composto da due caratteri: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase dori ni akaruku (diventare chiaro tramite la ragione). Come abbiamo mostrato, la filosofia orientale e la filosofia occidentale non sono necessariamente in opposizione. Molti autori europei hanno sviluppato la riflessione intorno alla realtà considerata come incessante cambiamento. I filosofi giapponesi hanno recepito ciò, e assunto gli studi di questi autori all’interno dei loro sistemi filosofici. Nel XX secolo la filosofia giapponese si concentrò sull’analisi delle opere di Hegel, Husserl e Heidegger, avvertiti come più consoni. Sulla spinta della dialettica hegeliana, molti filosofi giapponesi cominciarono ad elaborare una logica orientale in termini moderni. Kiyoshi Miki (1897-1945) scrisse Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) in cui analizzava lo sviluppo delle idee nel mondo storico, e dunque la diversità propria di ogni civiltà. Kitaro Nishida (1870-1945) fu l’autore più prolifico e deciso nel sostenere l’esistenza di una logica giapponese. Riconsiderando la critica di Hegel al principio di non-contraddizione, Nishida cercò di individuare una logica dove la contraddizione è un’identità (mujunteki doitsu) costitutiva della realtà. Egli chiamò questa logica come logica del luogo (basho no ronri). Hajime Tanabe (1885-1962) elaborò una logica della specie (shu no ronri) e nell’opera Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) sostenne la peculiarità del pensiero giapponese. Risaku Mutai (1890-1974) in Basho no ronrigaku (Scienza della logica del luogo) riprese e sviluppò il lavoro di Kitaro Nishida, mostrandone l’ampiezza e le applicazioni che ne derivavano. Egli, come altri filosofi, critica l’opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero, piuttosto la ritiene una costruzione congeniale a certe esigenze delle società occidentali. Tetsuro Watsuji (1889-1960) fu un sostenitore del nihonjinron (specificità della cultura giapponese) e nell’opera Fudo (Clima) cercò di evidenziare l’influenza dell’ambiente sulla civiltà. Satomi Takahashi (1886-1964) riconobbe diversi sistemi dialettici e il pluralismo delle logiche, e perciò ne tentò una sintesi nell’opera Ho benshoho (La dialettica onnicomprensiva). Lo sforzo dei filosofi giapponesi era evidentemente indirizzato a sviluppare una filosofia moderna che recuperasse i validi insegnamenti della tradizione orientale, consolidando le convergenze con la filosofia europea.
Recentemente lo studioso giapponese Daisaburo Hashizume nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del buddhismo), ha evidenziato la presenza di un filone delle tematiche del pensiero giapponese anche nella filosofia di Ludwig Wittgenstein. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici. Hashizume passa ad analizzare le strategie del buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore. Wittgenstein aveva visto in frasi come io provo dolore ed egli prova dolore, una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale (io provo dolore) è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo (egli prova dolore). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà. Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di seguire una regola. Hashizume riconosce nel "seguire una regola" una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui gli allievi vengono interrogati attraverso l’uso di un koan (quesito). Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.
"Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)
"La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)
"Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)
"Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)
"Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)
"Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?" (Della certezza, Par.456)
Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente. Ed è ciò che da secoli ci insegna la filosofia giapponese.

Bibliografia
Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Nishida, Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, L’Epos, Palermo, 2005.
Nishida, Kitaro, L’io e il tu, Unipress, Padova, 1997.
Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001.
Nishitani, Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma, 2004.
Putnam, Hilary, Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano, 1998.
Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.



Articolo tratto dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.